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Archive for the ‘IL MIO TROPICO DEL CANCRO’ Category

6 maggio
Le ferite quasi non dolgono più. Qualche lieve fitta si fa sentire a tratti, davvero poca cosa.
Mi sento come se qualcuno fosse entrato e m’avesse rubato la vita. Ogni cassetto è stato aperto, rovistato, violato. Non ci si raccapezza più.
Forse cercavano qualcosa di prezioso ma io non sono nulla di prezioso. Tra i cocci giacciono, come morti, i sogni, i miei sogni di quiete.
Mi sento tradita e non c’è nessuno con cui potermela prendere, a cui chiedere di pagare i danni.
Passo ore a occhi sbarrati, fissando il vuoto e aspettando che accada qualcosa, che qualcuno mi liberi da questo peso.
L’apatia, il distacco da una realtà che fatico a sopportare mi rendono inerme, vittima di me stessa, oltre che degli eventi. Sono carne viva e, allo stesso tempo, non sento nulla. È come se il dolore m’avesse tolto ogni altra sensibilità e una corazza impedisse il contatto.

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David Friedrich
Viandante sul mare di nebbia, 1818

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5 maggio

5 maggio
Ieri in sala operatoria credo di essere stata abbastanza brava. Tutti sono stati così cari. Mi sono sentita a mio agio: a pensarci bene è una frase grossa, ma questo è accaduto.
Sentirsi sezionare nella carne e nel sangue, è meno doloroso se il chirurgo è anche uomo e, da essere umano oltre che da tecnico, accompagna in un momento tanto delicato per entrambi.
Il dolore fisico è nulla rispetto a quello dell’anima. Il cuore è turbato. Le parole mancano. Vedo tutto sfuocato e non posso concentrarmi.
Non sento la fame e ho freddo, tanto freddo, come se una parte di me fosse morta e diffondesse il suo gelo.
Penso a mia madre, forte nell’affrontare la malattia, dall’inizio alla fine. Non sarebbe fiera di me, come sono ora, ripiegata su me stessa.
Dove sono finita? Dov’è finita la mia vita? Chi sono io? Sto perdendo il senno? È questa la disperazione? Questo rodermi carne e anima, questo perdere coraggio e vigore?
Sono squarciata da un desiderio di morte che sovrasta e pare salvezza e, al contempo, amo la vita, questa vita che non mi riesce di vivere.
Oggi pomeriggio sono andata dalla parrucchiera. Non riesco nemmeno a parlare, ma vado a farmi i capelli. Non vorrei che il mio stato di assoluto disorientamento fosse palese. Meglio che almeno l’aspetto esteriore sia passabile.

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4 maggio

La sveglia suona. Sono arrabbiata con mio marito e non lo vorrei nemmeno accanto: si ostina a fare il medico e io vorrei accanto un marito. Non ho tuttavia voglia di discutere. Accetterò per oggi quel che verrà, poi si vedrà. Tra alti e bassi, pace e litigi, siamo sempre stati insieme, l’uno per l’altra comunque.

Mi preparo con cura. Emily mi accompagnerà anche oggi. Porterò in sala anche una canzone, nella versione di Israel Kamakawiwo’ole, accompagnato dall’ukulele. Mio fratello Emanuele ha trovato il cd e me ne ha fatto dono.

Somewhere over the rainbow Way up high And the dreams that you dreamed of Once in a lullaby

Somewhere over the rainbow Blue birds fly And the dreams that you dreamed of Dreams really do come true

Someday I’ll wish upon a star Wake up where the clouds are far behind me Where trouble melts like lemon drops High above the chimney tops that where you’ll find me

Somewhere over the rainbow Blue birds fly And the dream that you dare to, why, oh why can’t I?

Well I see trees of green and Red roses too I’ll watch them bloom for me and you And I think to myself What a wonderful word

Well I see skies of blue and I see clouds of white And the brightness of day I like the dark and I think to myself What a wonderful word

The colours of the rainbow so pretty in the sky Are also on the faces of people passing by I see friends shaking hands Saying: – How do you do? They’re really saying: – I…I love you.

I hear babies cry and I watch them grow They’ll learn much more Than we’ll know And I think to myself What a wonderful word

Someday I’ll wish upon a star Wake up where the clouds are far behind me Where trouble melts like lemon drops High above the chimney top that’s where you’ll find me

Oh, Somewhere over the rainbow way up high And the dream that you dare to, why, oh why can’t I?“.

Arcobaleno, ninnananna, stelle, nuvole, uccelli, alberi, rose, sogni, gocce di succo di limone, si porta tutto in sala operatoria.

Il viaggio verso l’ospedale procede senza grossi problemi, se si esclude la tensione che Paolo trasmette. Forse ha ancor più paura di me. Arrivati in chirurgia, l’infermiera di turno discute sulla questione dell’anestesia e del ricovero e, con tono saccente, fa domande sui farmaci che sto assumendo e si permette commenti e critiche sulla posologia. Non le do comunque bado.

In ogni reparto che si rispetti esistono uno o più esemplari del genere “Iohoilcamiceehosempreragione”.

Ho imparato a ignorarli e a considerarli per quello che sono. A dire il vero, mi fanno anche un po’ pena e mi sforzo di capirli, ma questo è un altro discorso.

Nel frattempo intravedo il chirurgo che mi accoglie con un sorriso e questo basta a quietarmi. Non nomino nemmeno le obiezioni dell’infermiera e ricambio il saluto. Tra poco mi metterò nelle sue mani.

Giunta nella camera a due letti, inizio il rito di preparazione. Ahimè, mi strucco e, infilato il pigiama, mi rifugio sotto le coperte, ma non posso riposare perché la mia compagna di stanza continua a lamentarsi del tempo che passa: – Quando mi chiameranno? Perché non arrivano? Quando toccherà a me? Sono stanca di aspettare…

Dopo quasi un’ora di questa solfa, mi permetto di intervenire e consiglio alla malcapitata di mettersi stesa e pazientare, possibilmente in silenzio. Finalmente, tra una puntatina in bagno per la pipì da tensione e una poesia di Emily, riesco a rilassarmi e persino a dormire. Quando la porta si spalanca ed entra la barella intuisco che il momento è giunto. Brava brava mi spoglio, indosso il camice e parto per la nuova avventura. Nel corridoio incrociamo il chirurgo.

Aiuto… lei non doveva essere in sala… penso. Vorrei parlare, ma la voce si strozza in gola, un fremito mi attraversa, una scarica elettrica mi scuote.

– Arrivo subito, – dice lui, stringendomi il polso. Chiudo gli occhi, sospiro e, nel corridoio fuori dalla sala operatoria, tanto per cambiare… piango.

– Allora, come va? Ci siamo. Si fa tutto in anestesia locale? – chiede il chirurgo che mi ha raggiunto e, guardandomi in viso, parla con la cadenza familiare e il tono gentile.

– Sì, sono pronta, vada per la locale. Non badi alle lacrime. Mi fido di lei, dottore.

Non so nemmeno come, mi ritrovo in sala operatoria e rivedo i simpaticissimi infermieri che mi preparano: di nuovo a braccia aperte come su una croce. Arriva anche l’anestesista, lo stesso del precedente intervento.

– Ora cara le do qualcosa e vedrà… non sentirà alcun dolore, – dice, carezzandomi il viso. Trova la vena e fissa l’ago al braccio con un cerotto. La soluzione cade, goccia a goccia. Quando l’intervento inizia la paura ha lasciato il posto a una fiducia totale, mi sento sicura e sono concentrata per collaborare.

Non mi accorgo nemmeno dell’ago che si muove nel seno. Dopo poco sento solo toccare il petto. La cosa mi impressiona, ma il clima intorno aiuta e tutto svanisce, suggestione compresa.

Dopo la prima incisione sul seno e l’ampliamento parenchimale in quella sede, il chirurgo incide l’ascella da cui verranno asportati i linfonodi sentinella. Mentre opera mi parla e si assicura che non senta dolore.

A un certo punto, mi chiama per nome: – Tutto bene, Anna? Sente male? Dica se le faccio male.

Sentire pronunciare il mio nome di battesimo mi infonde coraggio. Mentre l’assistente dà gli ultimi punti alla ferita sul seno, il chirurgo spunta dietro di me, sorride e, prima di uscire, mi sistema la cuffietta in capo.

– Ci vediamo più tardi, – dice allontanandosi.

E lì, dentro una sala asettica e fredda, riesco a immaginare di essere in una delle mie fiabe, dove il bene e la bontà trionfano.

No, non sono troppo grande per le fiabe. Non si è mai troppo grandi per le fiabe e per i sogni. Sono un cavaliere ferito in battaglia, soccorso da altri cavalieri.

Così vivo, grazie all’umanità di queste persone e alla mia spontanea fantasia, l’intervento per un cancro al seno.

Chi vuole rida e mi dia della pazza. Sono abituata all’incomprensione e, sinceramente, in questo momento, come si suol dire, me ne faccio un baffo. Giunta in camera, ho una crisi di pianto e scarico la tensione comunque accumulata. Paolo è vicino a suo modo e pare imbarazzato dalle lacrime. Lo incoraggio come posso e, appena ripreso il controllo, apro il libro.

The Heart asks Pleasure – first – And then – Excuse from Pain – And then – those little Anodynes That deaden suffering –

And then – to go to sleep – And then – if it should be The will of it’s Inquisitor The liberty to die –

Il cuore chiede piacere innanzitutto Poi assenza di dolore poi quegli scialbi anodini che attenuano il soffrire,

poi chiede il sonno, e infine, se a tanto consentisse il suo tremendo Giudice, libertà di morire.

apitrifoglio

To make a prairie it takes a clover and one bee, One clover, and a bee, And revery. The revery alone will do, If bees are few.

Oh, sì, il sogno può bastare se le api sono poche…Ripetendoi versi di Emily, chiudo gli occhi e mi addormento.

Quando, nel pomeriggio, il chirurgo entra nella stanza, scambiamo poche parole. Siamo entrambi stanchi.

– La mando a casa presto, – dice, controllando la medicazione. Poi risistema il ghiaccio sul seno, riassetta le coperte ed esce salutando con un sorriso.

Un sorriso, una parola, uno sguardo, una stretta di mano possono fungere da antidolorifico, antidepressivo, calmante. Così come una frase sgarbata, gli occhi bassi, l’arroganza possano essere veleno.

Dopo poco il medico ci consegna la lettera di dimissione e fissa l’appuntamento di lì a pochi giorni per il controllo e la medicazione.

Con l’aiuto di Paolo, mi vesto. Poi, a passi lenti, ci avviamo insieme verso l’uscita del reparto. Da lontano il chirurgo ci saluta con la mano.

Il “mio” principe, un po’ abbacchiato, m’accompagna a casa.

Quando riesco a distendermi nel letto, nel mio letto, profumato e fresco di bucato, sono spossata ed eccitata. Telefono a mio padre: – Papà, sono a casa. – Arriviamo subito, – è la risposta.

Dopo meno di un’ora, mio padre e i miei fratelli entrano nella camera con un mazzo di rose appena colte. E io sento tutto il calore del loro amore e ringrazio il Cielo.

Tornano anche le mie figlie. I visi intimoriti sbucano dalla porta.

– Ciao, mamma, – dicono con un filo di voce. Le faccio avvicinare e le bacio. Ricevo una telefonata da mio fratello lontano.

Ho tutti accanto e sono loro grata. Eppure sono sola. Mi sento sola.

Voglio tenere per me questo strazio di malattia.

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3 maggio

Oggi linfoscintigrafia per individuazione del linfonodo sentinella e colloquio con il chirurgo.

Mi sono fatta bella e ho predisposto per le ragazze che saranno a casa.

Non ho paura del dolore oggi. Quella che c’è, di paura, la riduco in un cantuccio, come un bimbo colto in una marachella.

Dopo essere stata punta nella sede del precedente intervento, attendo nella saletta dei pazienti iniettati e penso. Penso che la vita è bella, nonostante tutto. Penso che dovrò ritrovare coraggio per sorridere dentro…

Quante donne sto incontrando con problemi simili al mio, quante persone con altre patologie, capitolate sotto lo stesso nome, terribile a dirsi e a sentirsi pronunciare. Sono andata giorni fa a cercarne l’etimologia sul dizionario, ma ora non mi va di pensarci…

Quando una collega mi fa stendere sul lettino, le lacrime compaiono senza che abbia tempo di controllarmi e il medico, ancora una volta, pensa che abbia paura dell’iniezione.

Io piango per liberarmi dal peso che ho dentro, dal fardello che inesorabilmente schiaccia. Sotto quel peso mi pare di non potermi risollevare, di non distinguere più nulla.

Porto una maschera, quando sono tra la gente, una maschera che mi accomuni alla loro lontananza, all’indifferenza. Dietro la maschera c’è uno sguardo vuoto. Io sono vuota. E ancora penso che la vita è bella, più bella di quanto abbia mai immaginato.

Ho incontrato il chirurgo. È una persona eccezionale. Non spreca parole e trasmette sicurezza.

Al primo intervento avevo timore dell’anestesia locale. Parlandone, oggi, abbiamo valutato insieme che dovrei farcela anche questa volta, ma potrò decidere domani in base a come mi sentirò.

Capirà l’uragano che porto dentro? Si ricorderà domani di avere sotto i ferri una donna stremata? O sarò solo uno dei tanti corpi, carne e sangue? Che stupidi pensieri! Certo che si ricorderà.

È sera e sono stanca, ma la testa non trova riposo. Paolo non è di grande sostegno e ha pensato bene di fare una scenata a Rachele per una banalità. Poco fa l’ha assalita con parole pesanti e insensate: – Domani tu vorresti uscire? Con tua madre in sala operatoria, tu pensi a questo?

– A che cosa vuoi che pensi? Sono felice che si distragga. Mi tranquillizza saperla fuori con gli amici, – ho ribattuto. Parole buttate al vento le mie, a cui è seguito un litigio tra grida e lacrime.

Quando si comporta in questo modo, lo picchierei. Sono giù anche per questa incomprensione. Domani sarò in sala operatoria e sto piangendo. Non è giusto, ma è così. Piango e non c’è consolazione.

Se nessuno mi può ascoltare, lo farò da sola. Dal dolore scaturisce una lettera che “mi scrivo”.

“Mio tesoro, da tempo non ci sentiamo e tante sono le questioni da affrontare. Molte cose sono cambiate, molti fatti accaduti nelle nostre vite in questi anni. Il destino ci ha allontanato, se così si può dire. Gli eventi ci hanno separato fisicamente, ma niente può impedire di sentirci comunque presenti l’una per l’altra. Il dialogo tra noi può riprendere in qualsiasi momento, come se nulla fosse, passassero secoli di silenzio. È così che funziona tra chi si ama. Lo credi ancora, piccola mia?

Sono certa che il mondo, questo mondo distratto e folgorante, non abbia mutato l’essenza del tuo essere, la tua dolcezza verso la vita. E serberai, nella memoria del cuore, ricordi innumerevoli di ciò che è stato. Da questi ricordi vorrei riprendere il filo del discorso, interrotto bruscamente un giorno, contro la nostra volontà, se tu, mio angelo, sei d’accordo.

Rammenti le ore passate insieme sin dai tuoi primi respiri? Il tuo capo sul mio petto, la tua mano paffuta nelle mia, i primi passi, le prime parole balbettate, le ninnananne sussurrate, la carezza e il bacio sulla fronte prima di addormentarti.

Narravo fiabe, ti insegnavo filastrocche e disegnavo, tenendoti sulle ginocchia. Quanto amavi vedermi tracciare le tue fantasie sul foglio bianco, quasi fosse un mondo ch’io creavo allora per te e nel quale avventurarti.

Adoravi ascoltarmi raccontare dei tuoi nonni, della mia infanzia, della guerra che aveva invaso e stravolto le nostre vite.

– Ancora, ancora, – strillavi avida.

Sin da bambina, descrivevi infervorandoti quel che ti accadeva, volendo rendere partecipi gli altri delle tue scoperte, del tuo entusiasmo per la vita, chiedendo conferma delle tue conclusioni e convinzioni.

Molte volte, dopo sconfitte e insuccessi, ho raccolto il tuo pianto e consolato il tuo stupore di fronte all’indifferenza degli altri. Eri una giovane donna estroversa e fiduciosa, cocciuta e anticonformista e perciò spesso fraintesa, anche da me. Ti ho guardato partire, piccolo don Chisciotte, per battaglie, perse in partenza secondo la mia esperienza, irrinunciabili secondo i tuoi principi. E ti ho vista tornare, sconfitta, malridotta e ferita, ma fiera della fedeltà a un ideale.

Ho assistito allo sbocciare dei primi amori. Ti ho vista, innamorata e più bella che mai, uscire di casa per i primi appuntamenti e ho trascorso ore insonni, attendendo il tuo ritorno.

Sei cresciuta così in fretta. Gli anni scorrevano rapidi, nel susseguirsi degli eventi: lo studio, il lavoro, il matrimonio. Poi i figli, le tue ansie di madre, i problemi della vita, le telefonate disperate.

– Dimmi qualcosa tu. Che devo fare? – gridavi con rabbia. E, quando avresti avuto ancora così bisogno di me, la mia malattia ci ha schiacciato sotto il suo peso opprimente.

Non mi hai mai lasciato. Mi sei rimasta accanto, mostrando un’inesauribile energia, sostenendomi con le tue caute parole, distraendomi e facendomi sorridere con teneri scherzi, quando coglievi l’insopportabilità della mia angoscia.

Mai hai minimizzato il mio dolore, riconoscendone la dignità e condividendone la gravità. Così per anni, giorno dopo giorno, lacrima dopo lacrima, fino a quando tu, come una madre, hai sostenuto la mia mano scarna e guidato il mio avanzare infermo.

Rivedo il passo risoluto quando entravi nella stanza. Rivedo i grandi occhi neri fissarmi lucidi e vivaci. Sento la tua voce roca. So quanto piangevi di nascosto per me, bambina mia, la mia bambina, mentre m’incamminavo Oltre.

So quanto stai piangendo ora, mio amore, e vorrei poterti consolare.

Posso leggere il tuo cuore come fosse un libro. Sento la tua stessa nostalgia. Ho la stessa tua voglia di tenerezza.

Sei incamminata tuo malgrado su una strada difficile, senza scappatoie o scorciatoie. Ti senti confusa, incompresa, sola. I pensieri si affannano in mille direzioni, disorientandoti. Non ti riconosci nemmeno. Lo so, piccola mia, non riconosci la tua vita. Sei catapultata in una dimensione irreale. Vorresti addormentarti e risvegliarti, scoprendo d’essere stata in un sogno o nasconderti in una delle nostre fiabe e fuggire lontano sul dorso di un cavallo alato.

Ma non si sfugge alla vita. Tu lo sai, lo sai nel più profondo di te. Devi solo ammetterlo, piccola, prenderne atto coscientemente. Il Dolore è fedele come un innamorato, non si lascia ingannare o aggirare. Lo devi accettare, un po’ come le medicine cattive di quando eri piccina.

Lascia che ti prenda e dona la tua pena per qualcosa che va oltre te stessa, oltre il tangibile e il comprensibile. Permetti alle lacrime di rigare le guance.

È naturale essere spaventati, ribellarsi, chiudersi in un silenzio distante, quando si scopre d’essere malati, quando questa malattia porta un nome così amaro.

Domani, mio tesoro, in quella sala asettica, sotto quelle luci abbaglianti, dinanzi a quei medici, porta il tuo cuore, così com’è ora, dolente e inquieto. Entra, mio coraggioso cavaliere, armata di tutta la tua dolcezza e nulla, nemmeno la paura, ti potrà sconfiggere.

Sei sempre nel mio cuore. Ti abbraccio forte, dall’Oltre in cui ora vivo.

                                                                                       Tua madre”

Rosa e Paola a Corte Grande con Duca

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30 aprile

Giornata di fitto pensare. Siamo stati al mare, dove ci ha accolto una spiaggia ventosa, illuminata da un sole a tratti coperto. Stormi di gabbiani volteggiavano in cielo emettendo richiami. Ho inutilmente tentato di riposare. Mentre passeggiavo sulla riva, d’un tratto, un piccolo miracolo: una rondine mi sfreccia accanto toccando quasi la sabbia.

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Grazie, piccola rondine, grazie.

1 maggio

I gelsomini del terrazzo quest’anno sembravano perduti. La stagione bizzarra li aveva mutati in rami e foglie quasi incartapecorite. Ero incerta su come comportarmi… povere piante, così ridotte ma, dopo aver aver ottenuto pareri discordanti, decisi: potare, drasticamente.

Sperando di fare la cosa giusta, un bel giorno eseguii l’intervento e, con le cesoie, recisi rami e rametti, lasciando lo scheletro legnoso e ben poche foglie.

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Ora li sto guardando, i miei gelsomini: hanno messo germogli che, cresciuti, producono deliziosi ciuffi di fiori e presto l’aria del cortile profumerà di loro. Sarà così per me? Da questa donna rannicchiata e pesta rinascerà qualcosa? Quando mi lascio andare, Paolo si ritrae. Sostiene che è suo dovere reagire e non assecondarmi, ma lo sento così lontano.

E se io avessi bisogno di qualcuno con cui piangere? Piangere. Non compiangermi.

Il giorno dell’intervento si avvicina. Non trovo pace. Testa e cuore sono vulcani.

Non ho perso un giorno di lavoro, se non per gli esami e poche ferie.

Ciò che provo mi avvicina ancor più al Dolore del mondo e l’impotenza di fronte a esso mi fa impazzire.

Dio, ci vedi? Noi siamo qui, sotto il Tuo cielo. Guardaci.

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29 aprile

È più facile aiutare gli altri che se stessi.

Ascoltare le persone e accoglierne le pene in realtà dovrebbe essere naturale. Dover ascoltare il proprio dolore, lasciarlo maturare perché diventi altro, oh, è un supplizio. Questo accade: mi confronto con il mio dolore.

Troppe persone vogliono consolare minimizzando il dolore.A che servono frasi del tipo… devi reagire, devi essere forte, non la devi prendere così, al giorno d’oggi tutti guariscono?

Vorrei dire due parole a questi maghi: provate! Rimanete sospesi, pensando di dovervi sottoporre a interventi chirurgici, alla radioterapia, alla cura ormonale, alla castrazione chimica e alla chemioterapia. Vi cedo anche le notti insonni e tutti i pensieri che fanno scoppiare la testa.

E poi lasciatemi in pace… Non parlo perché il fiato manca e va conservato per lottare.

Sono preoccupata perché un tumore, anche se di sei millimetri, rimane un tumore.

Piango perché ho quarantacinque anni e due figlie da crescere, perché rivedo mia madre e rivivo il suo viaggio nella malattia, la stessa che ora porta me a spasso. Certo che sono tesa, accipicchia!

Se il mio soffrire vi imbarazza, non fa nulla ma, di grazia, fate silenzio. Non servono parole, non mi sarebbero d’aiuto. Ho solo bisogno di rispetto e umanità.

Rosa e papà, due gocce d'acqua

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28 aprile

Oggi ecografia addominale. Mi preparo con cura, tento di indossare la bella gonna a pois da poco acquistata, ma prendo atto che mi sta larga e dirotto su altro.

Continuo a calare di peso. Del resto non sento nemmeno lo stimolo della fame e, se non fosse per il fatto che devo cucinare per le ragazze, dimenticherei di mangiare.

Si parte, Paolo e io, insieme nonostante tutto.

Durante il tragitto osservo la nostra pianura sotto il sole che splende nell’aria tersa di una nuova primavera.

Tengo sulle ginocchia la borsa, con il principe ranocchio che mi guarda sornione.

Devo essere a vescica piena per l’esame, ma già mi scappa pipì e lo dico a Paolo sorridendo. In questa fase della vita o piango o faccio pipì.

L’ecografia ha dato buon esito. Il medico è ottimista.

Io non sono in grado di reagire, non ho voglia di nulla. Mi pesa parlare e la testa scoppia. Che confusione!

Vorrei non essere, non soffrire, sparire.

Tornata dall’ospedale, mi stendo a letto senza riuscire a riposare. Gli occhi rimangono sbarrati, la mandibola contratta.

Sono come morta, rinchiusa nel dolore, un grumo di carne sordo alla speranza, insensibile all’esterno, agli altri che mi vorrebbero aiutare. E questo non è bene perché il cuore non può reggere tanta durezza. Lo so. È un cuore battagliero spaventato…

E Tu, Tu che ti dici Padre, mi vedi? So che ci sei. So di essere Tuo santuario, ora che il dolore non cessa un solo attimo di possedermi, che la paura mi divora, che la fragilità mi rende poca cosa. Ora, in questo vuoto di me, costretta a vivere, spezzata, sfinita, cieca, irrazionale, sola. Sarà questo dolore che scava e consuma fecondo? Te lo offro, Dio, in cambio… di nullaRosa a 17 anni 2

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27 aprile

Al lavoro ho vissuto ogni minuto come un calvario.

Mi sforzo e impegno, ma sono distante, non so nemmeno dove. Fuggo gli sguardi e i discorsi, m’infastidisce parlare. Sono raggomitolata e impaurita, da un’altra parte.

Vorrei che qualcuno tentasse di capire ciò che provo, ma come spiegare senza correre il rischio d’essere compatita e a chi interessa capire?

Io sono dentro, gli altri stanno fuori, ma preferisco la solitudine alla compassione che potrei suscitare.

Non ho bisogno di sentirmi dire che tutto andrà bene né di statistiche e, ancor meno, di colpetti sulle spalle.

Vorrei essere lasciata in pace e colta nell’essere persona, nuda di fronte alla vita, spogliata di certezze, ma persona. Vorrei solo tenerezza sincera. Se un angelo mi prendesse tra le braccia e mi portasse via… sarebbe così semplice…

È notte ormai. Sento le ragazze chiacchierare nella stanza accanto, confidarsi piccoli segreti, ridere e muoversi rapide, i piedi scalzi sul pavimento in legno. Sento il cigolio leggero dei letti e immagino di poterle accompagnare nel sonno e nei sogni.

Le mie bambine, così le chiamo e tali rimarranno per me, finché vivrò. Quand’erano piccine, narravo o inventavo fiabe. Talvolta mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza, mi stendevo loro accanto nel letto, le baciavo in fronte e crollavo infine in un sonno profumato d’infanzia.

Ricorderanno domani tanta tenerezza?

Rimarrà traccia, qualche segno di me nel nocciolo del loro essere adulte?Non sono stata e non sono una buona madre e ho un brutto carattere. Eppure ho trascorso notti insonni pensando alle scelte migliori da farsi.

Ho parlato di questo e altro oggi con Michele, un compagno di corso cui sono rimasta legata che, appena saputo del mio problema, è corso al capezzale. Lui e io, pur rimanendo anni senza incontrarci, recuperiamo ogni volta il filo del discorso, come se il tempo non fosse passato.

Ho potuto rivelare l’angoscia che mi opprime e, seduti al tavolo della cucina, abbiamo pianto e sorriso, pensando ai vecchi tempi. Michele non ha cercato di consolarmi, ha semplicemente e umanamente condiviso il condivisibile. Così mi piace.

27 aprile

Al lavoro ho vissuto ogni minuto come un calvario.

Mi sforzo e impegno, ma sono distante, non so nemmeno dove. Fuggo gli sguardi e i discorsi, m’infastidisce parlare. Sono raggomitolata e impaurita, da un’altra parte.

Vorrei che qualcuno tentasse di capire ciò che provo, ma come spiegare senza correre il rischio d’essere compatita e a chi interessa capire?

Io sono dentro, gli altri stanno fuori, ma preferisco la solitudine alla compassione che potrei suscitare.

Non ho bisogno di sentirmi dire che tutto andrà bene né di statistiche e, ancor meno, di colpetti sulle spalle.

Vorrei essere lasciata in pace e colta nell’essere persona, nuda di fronte alla vita, spogliata di certezze, ma persona. Vorrei solo tenerezza sincera. Se un angelo mi prendesse tra le braccia e mi portasse via… sarebbe così semplice…

È notte ormai. Sento le ragazze chiacchierare nella stanza accanto, confidarsi piccoli segreti, ridere e muoversi rapide, i piedi scalzi sul pavimento in legno. Sento il cigolio leggero dei letti e immagino di poterle accompagnare nel sonno e nei sogni.

Le mie bambine, così le chiamo e tali rimarranno per me, finché vivrò. Quand’erano piccine, narravo o inventavo fiabe. Talvolta mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza, mi stendevo loro accanto nel letto, le baciavo in fronte e crollavo infine in un sonno profumato d’infanzia.

Ricorderanno domani tanta tenerezza?

Rimarrà traccia, qualche segno di me nel nocciolo del loro essere adulte?Non sono stata e non sono una buona madre e ho un brutto carattere. Eppure ho trascorso notti insonni pensando alle scelte migliori da farsi.

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Ho parlato di questo e altro oggi con Michele, un compagno di corso cui sono rimasta legata che, appena saputo del mio problema, è corso al capezzale. Lui e io, pur rimanendo anni senza incontrarci, recuperiamo ogni volta il filo del discorso, come se il tempo non fosse passato.

Ho potuto rivelare l’angoscia che mi opprime e, seduti al tavolo della cucina, abbiamo pianto e sorriso, pensando ai vecchi tempi. Michele non ha cercato di consolarmi, ha semplicemente e umanamente condiviso il condivisibile. Così mi piace.

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24 aprile

Vorrei essere coraggiosa e sorridere, vorrei credere ed essere speranza, non vorrei pesare sugli altri. Ho quarantacinque anni, una vita complicata, due figlie da crescere e mi ritrovo qui, nel letto, con gli occhi bruciati, il cuore impazzito, la testa altrove, il corpo fiaccato dalla stanchezza.

Ribellarsi? Accettare? Morire? Lottare?

Oggi piango e sono disperata. Non vedo le stelle e la luna non mi parla. Non trovo rifugio al vagare, abbraccio che mi possa contenere. Mi sento sola. Sono sola.

Ho imparato a curare gli altri, ma non a essere curata.

Ho ritirato la risposta della scintigrafia ossea: è negativa. Un piccolo passo avanti.

25 aprile

Il dolore non ti uccide. Al contrario, amplifica la gamma del sentire, trafigge la sensibilità che sei accentuandola all’inverosimile, toglie la capacità di essere.

L’essenza di me è sconfitta, rifugiata in un tormento, la carne scoperta per una ferita che vorrei mortale.

Mentre lavoro e mi muovo per casa e in cortile, sono altrove, peggio che se fossi morta. Nella mia mente si avvicendano visioni confuse e un logorio frenetico a cercare soluzioni e vie di fuga. Sono incupita da un dolore viscerale. Mi pare d’essere un blocco di marmo duro e freddo. Oh, se lo fossi…

Sono fragile invece, percorsa da una tensione che brucia energia. E cosa vedono le mie figlie?

Hanno dinanzi un fantasma. Da organizzata e organizzatrice, mi trovo a non saper gestire le occupazioni più banali. Sono disorientata e non mi riconosco. È cosi: non mi riconosco più e mi sento poco amata e compresa e non da ora. Stiamo attraversando un brutto momento mio marito e io… Oh, un attimo di quiete… poter dimenticare.

26 aprile

Morire e rinascere a ogni respiro.

Fingere un’indifferenza pesante come una bugia. Non riesco a mettere a fuoco ciò che mi circonda e mi spiace, mi spiace tanto. Non trasmetto messaggi positivi, poiché sono pressoché incapace di un contatto.

Mi sento come un astronauta sulla luna. Ricordo le immagini: uomini infagottati nelle tute, lenti e come trattenuti in ogni gesto, camminare sollevati nel vuoto. Così mi vedo.

Lavorare mi pesa: ogni paziente è, per così dire, una copia del mio dolore. Misuro le parole per non scoppiare a piangere. Tutto mi commuove.

Mi domando dove sono finita, rintanata da non potermi riconoscere, illusa di poter trovare negli altri ciò che devo scovare in me stessa.

Attendere, posso solo attendere. O avanzare a tentoni, rischiando cadute, errori, delusioni…

Sono scesa in archivio per recuperare i radiogrammi di un paziente e sono rimasta paralizzata tra gli scaffali colmi di grosse buste. Non mi ero resa conto di quanti fossero, di quanti fossimo.

Santo cielo, io ho un tumore. Io, Anna, questa Anna. Tra le mie cellule laboriose si nasconde qualcosa che attenta alla vita.

Dio, mi vedi?

Sono confusa. Non mi ribello, non accuso, non Ti lascio per altri.

Non sarai Tu ora a lasciarmi sola?

Lo so: non sto pregando tanto quanto molti suggeriscono.

Attendo piangendo.

Matilde ha domandato se guarirò. Rispondendo che nulla ci separerà, ho risposto bene?

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23 aprile

È giorno di analisi.

Inizia la stadiazione che non è una gara sportiva e non si svolge in uno stadio, ma serve a verificare l’eventuale diffusione della malattia.

Me la vedo, la bastarda, un inquilino abusivo. Quante stanze avrà occupato, zitta zitta, senza dare nell’occhio?

Nel mio caso l’indagine comprende una scintigrafia ossea e un’ecografia addominale.

Oggi mi sottoporrò alla scintigrafia, un esame che richiede l’iniezione di un radioisotopo che andrà a “fissarsi” alle ossa evidenziando eventuali metastasi. L’intervallo tra l’iniezione e la rilevazione del radioisotopo è abbastanza lungo.

Tento di convincere Paolo a non accompagnarmi, ricordandogli che nel periodo d’attesa non potrà stare con me. Mio marito non sente ragioni. Giungiamo nel servizio di medicina nucleare in anticipo e attendiamo il nostro turno.

Anche qui incontrerò un collega, ma ho deciso che mi presenterò dall’inizio come tale.

Ho portato il diario ed Emily. Mi conforta tenere tra le mani un libro di poesia.

Altre persone siedono nella grande stanza senza finestre dove un televisore acceso troneggia. Ci osserviamo a vicenda.

Quando vengo chiamata, mi fanno accomodare nella saletta per l’iniezione del radioisotopo. Il medico, una donna, non è molto affabile e dà l’impressione di avere fretta.

– Non è incinta? – domanda, ponendomi dinanzi il consenso che dovrò firmare. So che la domanda è di prassi, ma l’effetto è devastante.

– No, non sono incinta, – riesco a balbettare. Poi scoppio a piangere.

– Signora, – mi riprende il medico. – È solo un’iniezione. Non avrà paura di un ago così sottile?

Mi mostra la siringa e, senza troppi preamboli, tenta di prendere il vaso sanguigno. La vena si rompe, una volta, una seconda volta. Comincio a tremare, mentre il medico, spazientito, mi redarguisce.

La ragazza al suo fianco, una mia collega, è imbarazzata e non dice nulla. Io sono troppo avvilita per ribattere. Subisco la sgarberia, sperando che tutto finisca al più presto.

Vengo accompagnata nella sala per i pazienti iniettati, ognuno con le bottigliette d’acqua da bere. In breve ci ritroviamo in quattro e, a turno, si va in bagno. Agitata come sono, faccio pipì ogni quarto d’ora.

Due signore divagano in discorsi e sono soprattutto seccate dal tempo d’attesa.

Un signore, un bel signore di una certa età entrato dopo di me, siede quieto sulla poltroncina.

Rimaniamo soli, lui e io, a un certo punto, e iniziamo a parlare. Mi accenna alla sua storia e al timore che la malattia sia passata alle ossa. Quando gli racconto di me, con tenerezza esclama: – Ma è così giovane! Le auguro che tutto vada per il meglio.

Lo vorrei abbracciare. Sembra un pulcino appena uscito dal guscio, ma potrebbe essere mio padre e siamo sulla stessa barca, con la vela un po’ sbilenca e senza una rotta definita. Quando mi chiamano si raccomanda:

– Sia forte e non si dia mai per vinta.

La collega mi sistema sul lettino, domanda dove lavoro e mi rassicura. Sto immobile per il tempo richiesto, ma le lacrime riprendono e non le posso fermare.

Mentre il rilevatore scorre sopra di me, penso al mio nuovo stato: sono una paziente oncologica in cura per una neoplasia.

Sono dall’altra parte e me ne rendo conto ogni giorno di più. Sono in realtà da entrambe le parti, ma mi sento solo malata.

Ho tanta paura, nonostante ciò che racconto agli altri, ho paura di non farcela e che il male abbia la meglio, paura di non essere all’altezza e di mostrami debole.

Sono giovane e credevo di avere tanto tempo davanti. Questa malattia mi costringe a fare i conti con l’idea della morte.

Ho bisogno di pensare che qualcuno mi può capire senza compiangermi e avrei bisogno di riposare, ma ora è tempo di battaglia.

Rosa a 14 anni 2

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