Scrivere fa bene al corpo e all’anima. Fa bene soprattutto quando si sta molto male. Quando il disagio per il malanimo, l’ignoranza e la superficialità dell’Uomo che ti hanno ferito nel profondo si fa quasi, sottolineo “quasi”, insopportabile e insostenibile.
L’ignoranza dell’Uomo è quasi peggio della sua cattiveria. È quasi peggio perché insipiente, incoerente e “s-ragionevole“. Nell’ignoranza non hai confronto, non trovi dialogo. Trovi solo fagocitante vuoto e inesistenza.
L’Ignorante è auto-referente e non conosce limiti al proprio Io, non pone limiti alla propria negata inettitudine. L’ignorante non sa cosa siano umiltà e coscienza di sé. L’Ignorante vive di lagnosa superbia, credendosi un Re Sole.
Ebenezer Scrooge incontra l’Ignoranza e la Miseria
(dal Canto di Natale di Charles Dickens)*
Scrivo dunque oggi per lenire il dolore che più non posso contenere, tenermi dentro, se non a rischio che impesti corpo, anima e cuore.
Questo accade quando ti assale un dolore inutile, nato dall’ignoranza, nato parassita. Parassita sì, perché scaturito da una falsa e distruttiva simbiosi che traveste lo stato puro e reale di un parassita. E troppo dolore genera da tale oscurantismo, figlio della mancata conoscenza di una delle più grandiose doti, l’Umiltà, e della Sua ancella, l’Empatia. Che debbono essere “vere”. Non nate da vuoti corsi o ripetizioni a pappagallo d’un libro.
“La coscienza empatica si fonda sulla consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita, la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita“.
Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, pag. 532
*https://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Dickens