In Italia le statistiche (sottostimate) parlano di un milione e mezzo di vittime.
Quella gente fa quello che fa perché può farlo. Può farlo grazie a un sistema di tutela del lavoratore compiacente, grazie alla complicità dei vigliacchi che assistono alle vessazioni e non denunciano, grazie all’indifferenza di una giustizia che è bendata sì, ma non per essere imparziale.
In alcuni casi il mobber è l’azienda stessa, spesso un’azienda pubblica.
La persecuzione assume i contorni di una vera e propria strategia aziendale di eliminazione di una persona indesiderata o di riduzione, ringiovanimento, razionalizzazione del personale.
Harald Ege* riassume in sei fasi l’agonia delle persone come me.
Condizione zero
Il conflitto fisiologico
È una pre-fase normalmente presente in Italia. L’azienda italiana tipica è conflittuale. In questa pre-fase non c’è ancora la volontà di distruggere, ma solo quella di elevarsi sugli altri.
Fase I
Il conflitto mirato
Il conflitto fisiologico prende una svolta. Si individua una vittima verso cui dirigere la conflittualità generale e cambia l’obiettivo che non è più solo quello di emergere, ma di distruggere.
Fase II
L’inizio del mobbing
Il mobber inizia ad attaccare. La vittima designata percepisce un senso di disagio nei rapporti di relazione sul luogo di lavoro e inizia a interrogarsi sui mutamenti percepiti.
Mancano ancora sintomi e malattie psico-somatiche.
Fase III
I primi sintomi psico-somatici
La vittima inizia a manifestare problemi di salute: insicurezza, insonnia, problemi digestivi. Questa fase può protrarsi anche per lungo tempo. Iniziano le assenze dal lavoro per malattia.
Fase IV
Gli errori e gli abusi dell’amministrazione del personale
Il caso diventa pubblico. L’Amministrazione è insospettita dalle frequenti assenze della vittima, ma compie banali errori di valutazione dovuti alla mancata conoscenza del fenomeno. Di conseguenza i provvedimenti adottati saranno non solo inadeguati, ma anche molto pericolosi per la vittima.
Fase V
Il serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima
La persona mobbizzata entra in una fase di vera disperazione. Di solito soffre di forme depressive più o meno gravi che cura con farmaci e terapie che hanno effetto solo palliativo, in quanto il problema sul lavoro resta e si aggrava.
La vittima arriva a credere di essere la causa di tutto ciò che le accade e di vivere in un mondo di ingiustizie contro cui nessuno può nulla.
Viene danneggiata psicologicamente e fisicamente, menomata della sua capacità lavorativa e della fiducia in se stessa. Mostra alterazioni dell’equilibrio socio-emotivo (ansia, depressione, ossessioni, attacchi di panico, anestesia emozionale), alterazioni dell’equilibrio psicofisiologico (cefalea, vertigini, disturbi gastrointestinali, disturbi del sonno e della sessualità) e disturbi a livello comportamentale (modificazioni del comportamento alimentare, reazioni autoaggressive ed eteroaggressive, passività).
Fase VI
L’esclusione dal mondo del lavoro
È l’esito ultimo del mobbing. La depressione porta la vittima a cercare una via d’uscita in dimissioni, licenziamento, pre-pensionamento.
In alcuni casi la disperazione porta allo sviluppo di manie ossessive e/o ad atti estremi come il suicidio o la vendetta sul mobber.
In linea di massima sembra più colpito il settore pubblico, in particolare nei settori della scuola, della sanità e dell’amministrazione pubblica.
Nel pubblico tende a essere perpetrato da parte di colleghi e superiori allo scopo di punire o indurre a desistere dalla sua azione qualcuno che si è posto in contrasto con l’ideologia di maggioranza dell’ufficio.
Tra le fasce più colpite risultano gli uomini tra i 30 e i 40 anni e le donne tra i 40 e i 50 anni.
Il Mobbing può accadere a chiunque. Per quanto le ricerche abbiamo tentato di individuare un gruppo di lavoratori maggiormente a rischio, non è possibile delineare il profilo della “vittima designata”.
Possiamo dire che più o meno tutti noi siamo stati, siamo o saremo coinvolti durante il nostro lavoro in almeno un caso di Mobbing, indipendentemente dal ruolo ricoperto (da mobber, da mobbizzato o da semplice spettatore).
Il Mobbing provoca un sensibile calo di produttività all’interno dell’azienda in cui si verifica: la vittima non lavora più con gli stessi ritmi e la stessa efficienza, la sua produttività si riduce notevolmente, tanto che si possono raggiungere cali di prestazione dell’80%.
L’azienda subisce poi direttamente i costi di questo fenomeno: essa infatti continua a sostenere economicamente il 100% della paga del mobbizzato e del mobber.
Il mobber stesso provoca gravi danni, compiendo spesso sabotaggi, che danneggiano l’azienda prima ancora della vittima, o inducendo la vittima a compiere degli errori, anche questi costosi per la ditta; infine dedicando tra il 5% ed il 10% del suo tempo lavorativo alla progettazione ed esecuzione delle azioni mobbizzanti.
* MOBBING: Caratteristiche, conseguenze, soluzioni
a cura di Harald Ege Psicologo operante nell’ ambito della Psicologia del Lavoro e della Psicologia giuridica, CTU del Tribunale, Presidente di PRIMA
Molto interessante e ben strutturato, complimenti per l’articolo. Nel caso qualcuno volesse approfondire, anche io ho parlato di mobbing sul posto di lavoro qui: http://www.lavoroinspagna.com/molestie-sul-posto-di-lavoro-quando-e-mobbing/
Un saluto!
Lavoro in una Pubblica Amministrazione e sono interessato direttamente da questo problema da ben 15 anni. Ho deciso di denuniciare il tutto ed è capitato che il primo legale si è letteralmente venduto la causa all’Amministrazione stessa. Adesso a distanza di quasi 2 anni è stato presentato il ricorso da un secondo legale al quale mi sono rivolto spendendo 8000 euro anticipatamente come onorario. Non ho un soldo ma cascasse il mondo, per dignità e per tutto quello che ho sofferto, voglio a tutti i costi capire e sapere perchè è successo proprio a me. Voglio venire a capo per cercare di ricostruire una personalità che altri hanno annientato, umiliato e colpevolizzato in anni ed anni di cattiverei, sorprusi, maldicenze e tanta tanta omertà. Nel mio caso, l’omertà più assoluta parte inspiegabilmente proprio da chi gestisce e dovrebbe evitare certi comportamenti. Oggi, dopo 15 anni, anche se non è cambiato nulla, sono felice di avere denunciato e se ritornessi indietro, lo rifarei ancora senza pensarci su. Io credo ancora nella legge e non nell’omertà, nell’operosità e non nella connivenza anche se la mia realtà è ben altra cosa.. Mi auguro un giorno di poter dire ai miei figli che la legge e la verià hanno trionfato sull’omertà e la cattiveria dell’essere umano che dalle mie parti è tanta .
Ezio caro, nelle tue parole leggo la sofferenza e la dignità delle persone grandi. Sono le persone che, con le proprie forze e la tenacia dei giusti, si ergono a cercare quella legge e quella verità che tutti dovremmo desiderare e per cui tutti dovremmo agire.
Conosco il sapore amaro dell’omertà e dell’indifferenza di chi dovrebbe tutelare la persona umana, il lavoratore.
Conosco il tuo dolore come se fosse mio, amico caro.
Non affannarti a cercare e capire perché sia successo a te, proprio a te.
Non c’è nulla di razionale in ciò che accade alle persone come te, come me, come tanti, purtroppo.
Noi, a dispetto dei vigliacchi e degli ignavi che vivono di cattiverie e soprusi, comunque potremo camminare sempre a testa alta e guardare i nostri figli negli occhi.
Quelli, i mobbers – così vengono chiamati, – e i loro “soci” continueranno a essere ombre, fantasmi striscianti che il cerchio della Vita, ne sono certa, prima o poi fermerà.
Buon Natale, Ezio, di cuore.
Le conseguenze di una denuncia di mobbing
“Affinché la navigazione nell’oceano del web faccia emergere una verità scomoda, da anni sommersa da un mare di silenzio.
Dopo aver presentato un ricorso al Tribunale del Lavoro a causa di un mobbing ventennale, conclusosi il 23/12/2004 con il licenziamento, oltre al danno esistenziale connesso a tale fenomeno criminale, ho sperimentato su me stessa, anche, lo stato d’abbandono in cui versa un cittadino italiano che reclama Giustizia.
Nessun Magistrato, nei 3 gradi di giudizio percorsi, è mai entrato nel merito del mobbing denunciato tramite una “doverosa” attività istruttoria, non prendendo assolutamente in considerazione, una relazione lavorativa autobiografica di ben 18 pagine, corredata da n. 102 documenti, allegati a supporto dei vari fatti narrati; non mi è stata data l’opportunità di dire una sola parola e, addirittura, neanche l’avvocato della parte avversa si è curato, nella sua memoria difensiva, di contestare i singoli e vari episodi denunciati, ignorandoli completamente. E la Corte di Cassazione, che avrebbe potuto fare emergere finalmente la verità dei fatti, anche tramite un rinvio ad altro Giudice per esaminare finalmente gli allegati disattesi dai precedenti Magistrati, ha preferito, in data 11/5/2010, con una semplice ordinanza, rigettare il ricorso motivando che “è assolutamente assente la precisazione delle circostanze specifiche che avrebbero potuto essere dimostrate tramite la prospettata attività istruttoria”.
Chi può consulti il dossier intestato al mio nome e depositato in Corte di Cassazione: basta leggere i n. 102 documenti allegati, esibiti e ordinati in ordine cronologico, che certificano in modo specifico e conducente quanto raccontato, facendo emergere inequivocabilmente il mobbing subito e che, invece, non sono stati presi assolutamente in considerazione dai Giudici, pur avendoli agli atti.
Qui di seguito riporto i riferimenti occorrenti per rintracciare la mia pratica:
RICORSO ex art. 413 e segg. c.p.c. (previa reintegrazione urgente del posto di lavoro) e per violazione degli artt. 1175, 1375, 2087, e 2119 c.c.(“Mobbing”) tra Silvana Catalano e IRFIS Mediocredito della Sicilia spa
Tribunale civile di Palermo Sezione lavoro – Giudice: Dr. Dante Martino Fascicolo inserito nella causa civile iscritta al n. 638/2005 R.G.
Corte d’Appello di Palermo : – Presidente: Dr. Antonio Ardito
Consigliere relatore – Dr.Fabio Civiletti.
Fascicolo inserito nella causa civile iscritta al n. 782 R.G.A. 2008,
Corte di Cassazione di Roma – Presidente: Dr. Bruno Battimiello
Consigliere relatore: Dr. Saverio Toffoli.
Fascicolo inserito inscritto al R.G. 11181/09.
Sembra che, anche da parte della Magistratura, esista una ritrosia a identificare il mobbing, (i cui effetti, oltre ad esplicarsi nell’ambito lavorativo, distruggono ogni aspetto dell’esistenza delle vittime), come un crimine pianificato dalla “mafia dei colletti bianchi”, mirante a liberarsi di un dipendente “scomodo”. Chi denuncia la violenza psichica subita, si ritrova solo a combattere una dura battaglia, abbandonato a se stesso da chi si proclamava paladino della giustizia, isolato, talvolta, dai suoi stessi familiari, con la consapevolezza che, per proteggere il silenzio omertoso su certe vicende, esiste chi sarebbe pronto ad usare qualsiasi arma.
A seguito della decisione di denunciare la mia esperienza di vittima di mobbing, vivo disoccupata da 7 anni, separata in casa dal marito, con 2 figlie adorabili, che, pur vivendo sotto lo stesso tetto, improvvisamente, mi hanno considerato morta, tagliando con me ogni forma di comunicazione e senza mai avermi detto ciò di cui mi accusano. Ho esperito ogni tentativo possibile per riavvicinarmi, mentre, parenti, amici, conoscenti non si sono mai attivati (in mia presenza) per promuovere una discussione chiarificatrice sulle motivazioni di tale rifiuto, apparentemente sconosciute a tutti, dando per scontato che mi debba rassegnare al mio stato d’impotenza. E’ penoso pensare al rimorso che, nel futuro, le mie figlie potrebbero provare, allorquando diventassero consapevoli dell’inconsolabile sofferenza racchiusa nel cuore di una madre rifiutata e che stiano trascorrendo la propria giovinezza prive di quel sostegno affettivo incondizionato, che può dare solo una mamma. Non trovando coscienziosamente alcun motivo a me imputabile (come donna e come madre) che potrebbe giustificare un tale comportamento, non posso escludere che siano state “plagiate”, per privarmi oltre che del lavoro, della professionalità e dell’indipendenza economica, anche, delle mie figlie, al fine di farmi desistere da una solitaria lotta contro il mobbing, divenuto in questi anni un temibile strumento di Potere. E nella speranza di Giustizia riposta in tale incessante battaglia a difesa della dignità umana, trovo la forza per affrontare il mio presente.
Chi ricerca la verità oggettiva dei fatti, (oggi più che mai osteggiata dai sostenitori delle menzogne), faccia emergere le storie di malagiustizia seppellite negli archivi dei Tribunali!!!… La Menzogna si nasconde perché ha paura di essere scoperta e semina Ingiustizia, mentre la Verità si espone perché desidera che sia scoperta e genera Giustizia.
Cara Silvana, mi commuove e molto il tuo accorato commento.
Hai descritto perfettamente il mobbing: “un crimine pianificato dalla mafia dei colletti bianchi, mirante a liberarsi di un dipendente “scomodo”.
Purtroppo in Italia il mobbing non è configurato come specifico reato a sé stante. E questo è già un bello scoglio.
“Chi denuncia la violenza psichica subita, si ritrova solo a combattere una dura battaglia, abbandonato a se stesso da chi si proclamava paladino della giustizia, isolato, talvolta, dai suoi stessi familiari, con la consapevolezza che, per proteggere il silenzio omertoso su certe vicende, esiste chi sarebbe pronto ad usare qualsiasi arma”.
Questi sono gli altri terribili scogli: l’isolamento che si crea attorno alla vittima di mobbing perché chiunque, collega, familiare, amico, fatica a comprendere e a vedere l’aspetto criminale del progetto del mobber o dei mobbers e l’omertà dei testimoni più o meno consapevoli dei fatti.
Tu saprai meglio di me che spesso il mobbizzato viene “scaricato” da colleghi come persona depressa, che soffre di “manie di persecuzione”… È la strada più facile per liberarsi di un dolore scomodo come quello di chi subisce vessazioni spesso subdole, architettate con la maestria che solo il mobber possiede.
Il mobbizzato ha un cuore, il suo carnefice non prova alcun rimorso per il male che compie. Dicono gli studi che provi dolore solo di fronte a una condanna in tribunale e dolore solo per sè, senza alcun senso di colpa nei confronti della persona che ha torturato.
I figli di chi subisce mobbing sono vittime essi stessi di un male sociale ancora non riconosciuto come tale, se non a parole e dagli estessi organismi che da esso ci dovrebbero tutelare.
Sono convinta, fermamente convinta, che crescendo capiranno soprattutto il tuo coraggio. E, se proveranno rimorso, non sarà comunque tua colpa. Dico questo non per consolarti, ma perché conosco il senso di colpa di una madre che per amore si addossa persino colpe che sue non sono…
Mi fermo per ora. Sono tante la cose che ti vorrei dire. Sappi che ti sono vicina più di quanto possa esprimere a parole.
Della Giustizia riparleremo…
Un abbraccio