4 maggio
La sveglia suona. Sono arrabbiata con mio marito e non lo vorrei nemmeno accanto: si ostina a fare il medico e io vorrei accanto un marito. Non ho tuttavia voglia di discutere. Accetterò per oggi quel che verrà, poi si vedrà. Tra alti e bassi, pace e litigi, siamo sempre stati insieme, l’uno per l’altra comunque.
Mi preparo con cura. Emily mi accompagnerà anche oggi. Porterò in sala anche una canzone, nella versione di Israel Kamakawiwo’ole, accompagnato dall’ukulele. Mio fratello Emanuele ha trovato il cd e me ne ha fatto dono.
“Somewhere over the rainbow Way up high And the dreams that you dreamed of Once in a lullaby
Somewhere over the rainbow Blue birds fly And the dreams that you dreamed of Dreams really do come true
Someday I’ll wish upon a star Wake up where the clouds are far behind me Where trouble melts like lemon drops High above the chimney tops that where you’ll find me
Somewhere over the rainbow Blue birds fly And the dream that you dare to, why, oh why can’t I?
Well I see trees of green and Red roses too I’ll watch them bloom for me and you And I think to myself What a wonderful word
Well I see skies of blue and I see clouds of white And the brightness of day I like the dark and I think to myself What a wonderful word
The colours of the rainbow so pretty in the sky Are also on the faces of people passing by I see friends shaking hands Saying: – How do you do? They’re really saying: – I…I love you.
I hear babies cry and I watch them grow They’ll learn much more Than we’ll know And I think to myself What a wonderful word
Someday I’ll wish upon a star Wake up where the clouds are far behind me Where trouble melts like lemon drops High above the chimney top that’s where you’ll find me
Oh, Somewhere over the rainbow way up high And the dream that you dare to, why, oh why can’t I?“.
Arcobaleno, ninnananna, stelle, nuvole, uccelli, alberi, rose, sogni, gocce di succo di limone, si porta tutto in sala operatoria.
Il viaggio verso l’ospedale procede senza grossi problemi, se si esclude la tensione che Paolo trasmette. Forse ha ancor più paura di me. Arrivati in chirurgia, l’infermiera di turno discute sulla questione dell’anestesia e del ricovero e, con tono saccente, fa domande sui farmaci che sto assumendo e si permette commenti e critiche sulla posologia. Non le do comunque bado.
In ogni reparto che si rispetti esistono uno o più esemplari del genere “Iohoilcamiceehosempreragione”.
Ho imparato a ignorarli e a considerarli per quello che sono. A dire il vero, mi fanno anche un po’ pena e mi sforzo di capirli, ma questo è un altro discorso.
Nel frattempo intravedo il chirurgo che mi accoglie con un sorriso e questo basta a quietarmi. Non nomino nemmeno le obiezioni dell’infermiera e ricambio il saluto. Tra poco mi metterò nelle sue mani.
Giunta nella camera a due letti, inizio il rito di preparazione. Ahimè, mi strucco e, infilato il pigiama, mi rifugio sotto le coperte, ma non posso riposare perché la mia compagna di stanza continua a lamentarsi del tempo che passa: – Quando mi chiameranno? Perché non arrivano? Quando toccherà a me? Sono stanca di aspettare…
Dopo quasi un’ora di questa solfa, mi permetto di intervenire e consiglio alla malcapitata di mettersi stesa e pazientare, possibilmente in silenzio. Finalmente, tra una puntatina in bagno per la pipì da tensione e una poesia di Emily, riesco a rilassarmi e persino a dormire. Quando la porta si spalanca ed entra la barella intuisco che il momento è giunto. Brava brava mi spoglio, indosso il camice e parto per la nuova avventura. Nel corridoio incrociamo il chirurgo.
Aiuto… lei non doveva essere in sala… penso. Vorrei parlare, ma la voce si strozza in gola, un fremito mi attraversa, una scarica elettrica mi scuote.
– Arrivo subito, – dice lui, stringendomi il polso. Chiudo gli occhi, sospiro e, nel corridoio fuori dalla sala operatoria, tanto per cambiare… piango.
– Allora, come va? Ci siamo. Si fa tutto in anestesia locale? – chiede il chirurgo che mi ha raggiunto e, guardandomi in viso, parla con la cadenza familiare e il tono gentile.
– Sì, sono pronta, vada per la locale. Non badi alle lacrime. Mi fido di lei, dottore.
Non so nemmeno come, mi ritrovo in sala operatoria e rivedo i simpaticissimi infermieri che mi preparano: di nuovo a braccia aperte come su una croce. Arriva anche l’anestesista, lo stesso del precedente intervento.
– Ora cara le do qualcosa e vedrà… non sentirà alcun dolore, – dice, carezzandomi il viso. Trova la vena e fissa l’ago al braccio con un cerotto. La soluzione cade, goccia a goccia. Quando l’intervento inizia la paura ha lasciato il posto a una fiducia totale, mi sento sicura e sono concentrata per collaborare.
Non mi accorgo nemmeno dell’ago che si muove nel seno. Dopo poco sento solo toccare il petto. La cosa mi impressiona, ma il clima intorno aiuta e tutto svanisce, suggestione compresa.
Dopo la prima incisione sul seno e l’ampliamento parenchimale in quella sede, il chirurgo incide l’ascella da cui verranno asportati i linfonodi sentinella. Mentre opera mi parla e si assicura che non senta dolore.
A un certo punto, mi chiama per nome: – Tutto bene, Anna? Sente male? Dica se le faccio male.
Sentire pronunciare il mio nome di battesimo mi infonde coraggio. Mentre l’assistente dà gli ultimi punti alla ferita sul seno, il chirurgo spunta dietro di me, sorride e, prima di uscire, mi sistema la cuffietta in capo.
– Ci vediamo più tardi, – dice allontanandosi.
E lì, dentro una sala asettica e fredda, riesco a immaginare di essere in una delle mie fiabe, dove il bene e la bontà trionfano.
No, non sono troppo grande per le fiabe. Non si è mai troppo grandi per le fiabe e per i sogni. Sono un cavaliere ferito in battaglia, soccorso da altri cavalieri.
Così vivo, grazie all’umanità di queste persone e alla mia spontanea fantasia, l’intervento per un cancro al seno.
Chi vuole rida e mi dia della pazza. Sono abituata all’incomprensione e, sinceramente, in questo momento, come si suol dire, me ne faccio un baffo. Giunta in camera, ho una crisi di pianto e scarico la tensione comunque accumulata. Paolo è vicino a suo modo e pare imbarazzato dalle lacrime. Lo incoraggio come posso e, appena ripreso il controllo, apro il libro.
The Heart asks Pleasure – first – And then – Excuse from Pain – And then – those little Anodynes That deaden suffering –
And then – to go to sleep – And then – if it should be The will of it’s Inquisitor The liberty to die –
Il cuore chiede piacere innanzitutto Poi assenza di dolore poi quegli scialbi anodini che attenuano il soffrire,
poi chiede il sonno, e infine, se a tanto consentisse il suo tremendo Giudice, libertà di morire.
To make a prairie it takes a clover and one bee, One clover, and a bee, And revery. The revery alone will do, If bees are few.
Oh, sì, il sogno può bastare se le api sono poche…Ripetendoi versi di Emily, chiudo gli occhi e mi addormento.
Quando, nel pomeriggio, il chirurgo entra nella stanza, scambiamo poche parole. Siamo entrambi stanchi.
– La mando a casa presto, – dice, controllando la medicazione. Poi risistema il ghiaccio sul seno, riassetta le coperte ed esce salutando con un sorriso.
Un sorriso, una parola, uno sguardo, una stretta di mano possono fungere da antidolorifico, antidepressivo, calmante. Così come una frase sgarbata, gli occhi bassi, l’arroganza possano essere veleno.
Dopo poco il medico ci consegna la lettera di dimissione e fissa l’appuntamento di lì a pochi giorni per il controllo e la medicazione.
Con l’aiuto di Paolo, mi vesto. Poi, a passi lenti, ci avviamo insieme verso l’uscita del reparto. Da lontano il chirurgo ci saluta con la mano.
Il “mio” principe, un po’ abbacchiato, m’accompagna a casa.
Quando riesco a distendermi nel letto, nel mio letto, profumato e fresco di bucato, sono spossata ed eccitata. Telefono a mio padre: – Papà, sono a casa. – Arriviamo subito, – è la risposta.
Dopo meno di un’ora, mio padre e i miei fratelli entrano nella camera con un mazzo di rose appena colte. E io sento tutto il calore del loro amore e ringrazio il Cielo.
Tornano anche le mie figlie. I visi intimoriti sbucano dalla porta.
– Ciao, mamma, – dicono con un filo di voce. Le faccio avvicinare e le bacio. Ricevo una telefonata da mio fratello lontano.
Ho tutti accanto e sono loro grata. Eppure sono sola. Mi sento sola.
Voglio tenere per me questo strazio di malattia.
Ancora una volta ti leggo’
E ancora una volta vivo quello che stai vivendo.
Il tuo scrivere e’oltre ,va dritto al cuore.ti prego non smettere di farcene dono.
Grazie
Mina
Mina cara, ho atteso quasi 7 anni prima di condividere quei momenti di paura e disorientamento. Credo nella condivisione e nel potere curativo che essa possiede. Grazie per i complimenti, ma soprattutto grazie per la vicinanza appunto del cuore…
Abbraccio
Rosa
Come sono simili le emozioni di chi attraversa questo strazio!!!!! La solitudine che si sente anche se circondata da volti amati. La paura, la speranza, l’angoscia, la voglia di risvegliarsi dall’incubo. La sensazione di star vivendo la vita di un’altro. La determinazione di non far soffrire chi ci circonda e anche la sensazione che chi ci sta’ accanto a volte non capisce un piffero. La dignita’…mai perduta, neanche per un attimo….per non cedere al male. Importante condividere tutto questo. La vita e’ una bella bugiarda! dico sempre io! Ma l’abbiamo sgamata….la vediamo per quello che e’. Amara quanto bella! Love. Alex
Alessandra cara, hai davvero ragione: la malattia e il dolore mi hanno aiutato ad avere nuovi occhi e soprattutto nuovo cuore… Combattere, dopo la malattia e dopo un rientro al lavoro non proprio dei migliori…, ha aumentato il mio coraggio.
Siamo donne speciali noi…
Abbraccio